I biancospini fioriti sullo sfondo dei campi decorano la valle con i loro cespugli. A guardarli da metà costa, illuminati da un sole ansioso di ristabilire il predominio, sembrano tante spose vaganti nei prati con la loro aria di festa, la maggiolina allegria.
C’è la spinta impetuosa della vita: gli uccelli riempiono il silenzio e colorano il cielo di ornamenti appariscenti, le volpi escono dalle tane, i tassi perlustrano i campi in cerca di cibo. Il grano, già nato in autunno e rimasto in attesa durante l’inverno, gonfia di nuova linfa la pianta e prepara la spiga. Il verde invade la valle. Gli uomini, le donne e i bambini tornano a vivere nei campi: dalla terra viene la vita, nella terra si rifugia la morte, sulla terra si svolgono le loro giornate.
Nascoste da querce secolari, al confine tra il monte e la piana, appena dentro la selva e pur vicine ai campi, erano le case: tutte apparentemente uguali e ognuna diversa dall’altra. Tutte in pietra, rettangolari, a due piani; eppure ognuna con un particolare, una diversità che la distingueva dalle altre. Il taglio del portale; il disegno delle tavole della porta d’ingresso; la forma del davanzale alle finestre; la sagoma della pietra all’esterno dell’uscio; la decorazione del ferro piantato sul marciapiede che serviva da sterra piedi: particolari unici che distinguevano una casa dall’altra, una famiglia dall’altra. Vigeva ferrea la regola: una famiglia una casa. Non c’erano famiglie che avevano più case né case che ospitavano più famiglie. Quel piccolo paese di montagna, quasi nascosto tra le querce, non aveva nemmeno un nome, o meglio, ce l’aveva ma non lo sembrava: tutti lo chiamavano le Case.