Come bimbo che allatta
avvolgo capezzoli con lingua
contratta
stringo con dita il turgido seno
e succhiato con lena mi adagio
sereno
(dalla fessura del panno celato
al volto rivolgo un belato)
un bagliore di occhi nascosti
nel buio saetta, pare che il velo
si scosti
ma una scossa tellurica un sibilo
alato suggerisce beffardo un perfido
uccidilo.
Rivoli
Torna indietro Giò
fa freddo là fuori e il vento solleva le foglie,
questa notte d’autunno
non si addice alla tua gioventù.
Non c’è consolazione nel buio, credimi,
e le strade sono deserte.
Non esiste un luogo
dove seppellire la sofferenza
né un silenzio dove possa svanire.
Incontreresti altri dolori
deserti di sentimenti corpi venduti ragioni smarrite
e i tuoi diciotto anni sono pochi
per poterli capire
per contenerne l’urto all’imbrunire.
I tuoi passi si potrebbero perdere
i tuoi occhi ferire.
Torna indietro Giò,
smaltiremo l’onta
cureremo la ferita
alla luce del nuovo giorno.
Non sono date scorciatoie sulla china della vita
e fuggire non risolve,
è l’illusione di un attimo
una vendetta che distorce e non appaga,
tremenda punizione per entrambi.
Ascoltami ora
perché dopo lo schiaffo maledetto
non c’è stato più il tempo:
tu non ne hai accettato la violenza
io non ne ho controllato la follia,
mi tremano ancora le mani
e non mi vergogno di ammettere che ho pianto.
Torna indietro Giò, la porta è aperta.
Fanciullo estraneo di zolle e di fango
nell’età dei sogni che ancora infrango,
cantine buie nelle notti a primavera
sterco di vacche asini a merenda
e un pezzo di pane a nutrire la fame.
Fanciullezza di pezze e di strappi vistosi
di corpi nudi in un fiume tra i campi
di costole scarne volti feroci,
fanciullezza di prove precoci
di corse a stambecco di esili voci
stremata malizia di giochi e sgambetti.
Se mai fosti mia
scansami il peso adulto del cammino
il lungo congedo della vigilia.
Frecce boriose che m’indicate la strada
non affaticatevi: la conosco.
So dove giacciono i resti
dove condensano i ricordi
e l’immagine catalizza
in sogni astratti.
Non mi tormentate non correrò,
non seguirò i ritmi della mattanza,
non arrancherò a consumare eventi,
camminerò lento lungo il viale
dei cipressi, vedrò la porta avvicinarsi
con calma, avrò modo di studiarne
la prospettiva e valutarne l’infinita sciatteria.
Osserverò il popolo in pellegrinaggio
dove un giorno di maggio sarò di passaggio
in un luogo per soli adulti. Adulti soli
adulti ieri adulteri e così sia.
Il silenzio delle case ci accoglie
in questi strani ritorni notturni,
timidi furti di scene e sapori
di altre notti che furono vive.
Nel buio che oscura la vista guardo
il tuo volto conosciuto da sempre,
le nostre solitudini diluite
in anni di presagi e di speranze.
Sulla strada vuota di passi all’alba
ripetiamo eterni gesti e parole
appresi in grembo da un’unica madre.
Difendimi
dalla paura di vivere
dal dolore che scoppia nelle viscere
dalla stanchezza di un giorno senza pace.
Difendimi
dagli amori infelici
dalle facili promesse della vanità
dal pianto di una figlia e dal dolore del padre.
Difendimi
dalla dimenticanza
dalla viltà della separazione
dal tempo che smarrisce i ricordi
dall’argilla che inchioda al campo degli avi.
Difendimi
dagli usati volti
e dalle mani di chi m’infisse
l’antica colpa allor che non capivo
e da chi continua per interposta persona
a volermi imprigionato sul filo di una corda.
Difendimi
dalle passioni sbagliate
e dalla strada senza uscita della solitudine.
(Dedicata a mio padre)
I lupi corrono
in piccolo branco
cercando la vita
nella gola del cervo.
Strofino muto
le mie dita
al tuo collo.
La tua mano che chiara apparecchia
e i passi nella polvere lieve
al rifrangersi del raggio solare,
gesti e riti che non mutano in fretta.
Poi una forma assopita e diletta
i capelli arruffati e un sognare
che allenta i tratti e una quiete
come donna che bella si specchia.
Spesse volte ti ho vista arrancare
in corse diurne dagli orari costretta
o al richiamo tender l’orecchia
della prole che instancabile chiede.
Ma nulla ha scalfito la tua forza perfetta
ad evocare se la mia voglia sonnecchia
l’amore l’ardore e il sapore lunare
di bacio rubato dietro la siepe.
Avrei preferito una notte scura
come scusa alla mia scemenza
e compiere il gesto della scrittura
avvolto nel telo dell’incoscienza.
Scoprire gli umani languori non è segno
che dia pace al poeta, nascosti
tra i lembi dei versi composti
ho trovato l’inganno e lo sdegno.
Voci vestite di teneri accenti
urlano al mondo lo sconcio il ribrezzo
e per parole pensate con nobili intenti
esigono altere il più alto prezzo.
Così ripudiato mi strappo le vesti
scompaio dal giro mi chiudo nell’orto
e resto sospeso aspettando quei gesti
che mai verranno a rimuovere il torto.